Magistratura democratica

Esternalizzazione delle frontiere italiane in Libia e Niger: una prospettiva di diritto internazionale

di Alice Riccardi

Il lavoro analizza gli strumenti di pull-back della detenzione dei migranti in Libia e dei rimpatri volontari assistiti/umanitari dalla Libia e dal Niger, e riflette in particolare sulle responsabilità italiane per le gravi violazioni dei diritti umani sottese a tali due strumenti.

1. Esternalizzazione delle frontiere e diritto internazionale / 2. Le condizioni nei centri di detenzione per migranti in Libia e la prassi dei cd. ritorni volontari assistiti e umanitari / 3. L’Italia e l’esternalizzazione delle frontiere in Libia e Niger / 4. Sulla responsabilità italiana per le violazioni del diritto internazionale connesse alla gestione dei centri di detenzione in Libia e ai rimpatri volontari dalla Libia e dal Niger

 

1. Esternalizzazione delle frontiere e diritto internazionale

Nel diritto internazionale moderno, la frontiera è intesa come un luogo fisico, statico, lineare: è quel limite territoriale all’interno del quale esiste la sovranità, tanto da creare lo Stato. Tale ricostruzione teorica stride con quanto oggi accade nel Mediterraneo centrale dove, nel contesto migratorio, le frontiere appaiono invece liquide, in continuo mutamento, ancorate non tanto ai confini degli Stati, quanto più allo status delle persone. Qui la frontiera perde la sua connotazione territoriale per diventare “funzionale”[1] e materializzarsi dove si trova il titolare del diritto o dove si manifesta la condotta rilevante: per esempio, la frontiera “funzionale” che separa i migranti dal territorio italiano non corrisponde più solo ai confini dello Stato, ma coincide anche con quegli spazi che si trovano al di fuori di esso, dove di fatto si realizzano alcune delle politiche di gestione e controllo delle frontiere. L’espressione “esternalizzazione delle frontiere” è oggi comunemente utilizzata in diritto internazionale per riassumere il fenomeno appena delineato e descrivere quei processi attraverso i quali gli Stati di destinazione dei flussi migratori ne realizzano extra-territorialmente la gestione. Ciò avviene di regola spostando le procedure di controllo al di fuori del proprio territorio o trasferendo la responsabilità della gestione dei flussi in capo a soggetti terzi, sia statali che non. In termini generalissimi, l’esternalizzazione non disturba l’internazionalista in quanto tale, ma nella misura in cui è attuata attraverso forme e modalità dubbie. In particolare, la perversione più recente dell’esternalizzazione risiede nell’utilizzo da parte degli Stati di destinazione (l’Italia in primis) di sempre nuovi e più sofisticati strumenti tesi ad allontanare fisicamente dal proprio territorio, e perciò dall’alveo della propria giurisdizione, la gestione dei flussi; ciò, con l’obiettivo di intestare ad altri – cioè agli enti “esternalizzati” – le violazioni dei diritti umani dei migranti (su tutti, del divieto di respingimento) poste in essere al fine di impedirne l’ingresso sul proprio territorio. Tali strumenti si definiscono comunemente di pull-back (o di push-back by proxy), poiché consistono in misure che trattengono fisicamente i migranti nel territorio degli Stati di transito, impedendogli l’ingresso nel territorio degli Stati di destinazione. Mancando così un “contatto” tra gli organi dello Stato di destinazione e i migranti[2], i primi mirano a “liberarsi” delle responsabilità per eventuali violazioni del diritto internazionale commesse nei confronti dei secondi, che si pretendono attribuite solo agli Stati di transito o alle organizzazioni internazionali i cui organi materialmente realizzano le misure di pull-back.

La proliferazione di tali strumenti distorsivi della responsabilità statale ha determinato un crescente interesse da parte della dottrina internazionalistica, che in particolare si sta concentrando sulla ricostruzione del quadro normativo applicabile all’esternalizzazione, con l’obiettivo di contrastare la perversione sopra descritta e affermare invece la responsabilità degli Stati “esternalizzanti” per l’assistenza fornita agli enti “esternalizzati” al fine di porre in essere le menzionate violazioni del diritto internazionale[3]. Questo contributo vuole inserirsi in tale dibattito concentrandosi su quanto accade nel Mediterraneo centrale, lasciando però da parte il tema dei respingimenti in mare – brillantemente affrontato da altri e su cui poco si potrebbe dire di originale[4] – per analizzare invece altre due modalità di pull-back che mirano a prevenire che i migranti si imbarchino: la modalità di pull-back della detenzione nei Paesi di transito e quella dei cd. rimpatri volontari assisiti o umanitari dai Paesi di transito verso i Paesi di origine. Per ragioni di spazio e sistematiche, ci si concentrerà sul solo caso italiano. Ciò non significa, però, che non si riconosca il ruolo degli altri Stati membri dell’Unione europea e dell’Unione stessa nell’esternalizzazione, le cui responsabilità sia politiche che giuridiche si intrecciano con quelle italiane.

Posto questo caveat, il presente contributo procederà come segue. Primo, si identificheranno le violazioni del diritto internazionale dei diritti umani sottostanti ai due strumenti di pull-back della detenzione dei migranti, in particolare nei centri libici, e dei ritorni volontari assistiti/umanitari operati dal Niger e dalla Libia (paragrafo 2). Secondo, si offrirà uno sguardo d’insieme sulla cooperazione esistente tra l’Italia da una parte e la Libia, il Niger e le organizzazioni internazionali operanti sul territorio di entrambi dall’altra, indirizzata alla gestione dei centri di detenzione e ai ritorni volontari assistiti/umanitari (paragrafo 3). Terzo, si evidenzieranno i profili di responsabilità internazionale dell’Italia per le violazioni dei diritti umani descritte nel paragrafo 2, individuando i fori dove tali responsabilità potrebbero invocarsi.

 

2. Le condizioni nei centri di detenzione per migranti in Libia e la prassi dei cd. ritorni volontari assistiti e umanitari

Dall’inizio del secolo, ma soprattutto dal 2014, la Libia è il principale Paese di transito per i migranti che si muovono attraverso l’Africa sub-sahariana verso il continente europeo. Nel 2019, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (d’ora in avanti Oim) ha stimato la presenza in Libia di circa 800 mila migranti, che costituirebbero oltre il 12% della popolazione totale[5]. Di questi, circa 45 mila avrebbero diritto allo status di rifugiato[6]. Le norme libiche in materia di immigrazione appaiono povere, frammentate e non armonizzate. In particolare, l’ordinamento libico non opera alcuna distinzione tra migranti irregolari e richiedenti asilo: di fatto, tutti ricadono nella categoria di “migrante illegale” e ciò costituisce reato, punibile con la reclusione[7]. Di conseguenza, tutti i migranti in transito attraverso la Libia sono astrattamente destinati ai centri di detenzione, anche se non è chiaro se i detenuti lo siano in forza della fattispecie citata o se il regime a cui essi sono sottoposti sia di tipo amministrativo, poiché tutti sono detenuti arbitrariamente per un periodo indeterminato di tempo[8].

Il conflitto armato in Libia rende impossibile reperire informazioni attuali circa la gestione dei centri di detenzione ufficiali: non è neppure chiaro quanti centri sarebbero attualmente operativi. Secondo le più recenti stime pubblicate dall’Oim, circa 1500 migranti sarebbero detenuti in undici centri[9], anche se non è praticabile determinarne il numero esatto, dato che i migranti non sono registrati all’ingresso. I centri sono gestiti dal Dipartimento per la lotta all’immigrazione illegale del Ministero degli interni del Governo di accordo nazionale guidato da Al-Sarraj. È noto però come il Dipartimento sia gravemente infiltrato da organizzazioni criminali, trafficanti di esseri umani e gruppi armati, che sfruttano i migranti al fine di ricavare un profitto[10]. Il “business dei migranti” in Libia include anche la cd. Guardia costiera: sia le Nazioni Unite che l’Unione europea documentano come, una volta intercettati in mare e ricondotti sulle coste libiche, i migranti siano automaticamente trasferiti presso i centri di detenzione[11], sia ufficiali che non. Sempre secondo l’Oim, negli ultimi mesi sta emergendo una preoccupante tendenza, per cui la maggior parte dei migranti riportati in Libia dalla cd. Guardia costiera vengono trasferiti nei centri non ufficiali; ciò confermerebbe le recenti inchieste giornalistiche e i rapporti degli esperti delle Nazioni Unite secondo cui «esponenti delle forze armate e della polizia libica, collegate ai vari clan, sono implicati nella “cessione” e “vendita” di migranti ai trafficanti»[12]. La collusione fra i citati diversi attori, statali e non, crea un sistema circolare a cui i migranti non riescono a sottrarsi, se non pagando riscatti o, secondo recenti notizie di stampa, arruolandosi con una delle parti in conflitto. Secondo l’Oim, nelle sole prime due settimane di gennaio 2020 circa mille migranti sono stati ricondotti in Libia dalla cd. Guardia costiera e «all were taken to detention centres»[13].

Ciò che poi accade nei centri di detenzione non avrebbe necessità di essere descritto. Basti dire che non vi è organo o agenzia delle Nazioni Unite, organizzazione internazionale, ong o giudice interno[14] che, quantomeno dal 2017, non denunci le violazioni dei diritti umani di cui sono vittima i migranti detenuti nei centri gestiti dal menzionato Dipartimento del Ministero degli interni: inter alia torture[15], trattamenti inumani e degradanti[16] commessi anche attraverso la violenza sessuale[17] e riduzione in schiavitù[18].

Sia l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (d’ora in avanti Acnur) che l’Oim escludono che la Libia possa ritenersi un Paese sicuro. Entrambi gli enti forniscono assistenza ai migranti all’interno dei centri di detenzione, limitatamente alla somministrazione di beni di immediata necessità e alle cure mediche di base – rectius: fornivano, visto che, mentre si scrive questo contributo, sia l’Oim che l’Acnur affermano di non avere più accesso ai centri, e ciò almeno da novembre 2019, a causa dell’intensificarsi del conflitto armato[19]. Ad ogni modo, nessuno dei due enti può opporsi al trasferimento dei migranti nei centri[20].

Ai menzionati strumenti a disposizione di Acnur e Oim in Libia si aggiunge la recente istituzione (o rilancio) dei programmi di ricollocamento[21]. Mentre però il programma gestito dall’Acnur mira a evacuare dai centri di detenzione i migranti (che siano prima facie) rifugiati e a ricollocarli presso Paesi terzi che acconsentano a ospitarli, l’Oim riconduce invece i migranti presso i Paesi di origine, in forza dello strumento denominato “Humanitarian Voluntary Return” (d’ora di avanti HVR). L’HVR è definito dall’Oim come quel supporto amministrativo, logistico e finanziario offerto ai migranti che non vogliano o non possano restare in Libia e che decidano di fare ritorno presso il proprio Paese di origine[22]. L’organizzazione dei rimpatri è una delle funzioni statutarie dell’Oim[23], il cui criterio fondamentale risiede nella volontarietà del ritorno, che l’Organizzazione presume («is assumed to exist») laddove (i) si accerti la libertà di scelta del migrante, definita come assenza di pressione fisica o psicologica e (ii) il processo decisionale sia informato[24]. Il programma è aperto a tutti i migranti che non rientrino nel mandato Acnur ratione personae[25] – ossia, a tutti coloro che non posseggano i requisiti ex art. 1A(2) della Convenzione sullo status dei rifugiati del 1951 o che non siano richiedenti asilo, sfollati interni o apolidi. Le attività di rimpatrio dell’Oim in Libia precedono lo scoppio del conflitto armato nel 2011; successivamente, dopo una sospensione causata dall’intensità del conflitto, il programma HVR è ripreso nel 2017. L’Oim afferma di aver rimpatriato nel 2019 9.225 migranti dalla Libia; di questi, il 23% si trovava in stato di detenzione[26].

Lo stesso programma, seppur denominato più generalmente di “Assisted Voluntary Return” (d’ora in avanti AVR), è condotto dall’Oim anche in Niger. Qui, l’Organizzazione gestisce cinque “centri di transito” per migranti, l’unica alternativa di alloggio offerta da un attore internazionale a chi non rientri nel mandato Acnur: conditio sine qua non per esservi ospitati è la volontà di fare ritorno presso il proprio paese di origine, entrando nel programma AVR[27].

Sia l’HVR dalla Libia che l’AVR dal Niger destano numerosi dubbi. Se in via generale deve riconoscersi come certamente, attraverso i rimpatri, l’Oim salvi migliaia di vite e sottragga i migranti a torture e altri trattamenti inumani e degradanti, non può non rilevarsi come i programmi HVR/AVR, se sfruttati a fini distorsivi, possano utilizzarsi come strumenti di pull-back che potrebbero nascondere violazioni del diritto internazionale dei diritti umani.

In primis, può dubitarsi della “volontarietà” di adesione al programma da parte di coloro che sono detenuti in Libia. Secondo il Relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani dei migranti, un rimpatrio non può dirsi “volontario” quando manchino alternative sufficientemente valide al rimpatrio stesso: ad esempio, quando l’unica alternativa possibile sia rimanere in stato di detenzione[28]. Inoltre, il 14 novembre 2019 la Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti Corte Edu), per la prima volta investita di una questione riguardante la prassi degli AVR operati dall’Oim (nel caso di specie, dalla Finlandia all’Iraq), ha stabilito che un rimpatrio non può dirsi volontario «in terms of (…) free choice» quando l’unica alternativa possibile sia il rimpatrio forzato. In tali situazioni, secondo la Corte, l’ente a cui può attribuirsi la condotta di rimpatrio non è sollevato dalle responsabilità discendenti dall’aver esposto il rimpatriato al rischio concreto di perdere la vita o essere sottoposto a tortura, trattamenti inumani e degradanti. Questo, perché il rimpatrio in cui risulta viziata la volontarietà deve considerarsi forzato[29]. La stessa Oim riconosce come, nel valutare la sussistenza del requisito della volontarietà, deve accertarsi che i migranti non siano soggetti a un «actual or implied threat of indefinite or arbitrary detention to force enrolment in the AVR programme»[30]. Tale requisito potrebbe interpretarsi nel senso di escludere la volontarietà dei rimpatri dei migranti detenuti presso i centri libici. Secondo la Caritas, in tali contesti, difatti, «the line between forced and voluntary return is sometimes blurred»[31], mentre per il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura «ill-treatment or grossly inadequate detention conditions can even amount to torture if they are intentionally imposed, encouraged or tolerated by States for reasons based on (…) the purpose of (…) agreeing to “voluntary” return»[32]. Ciò potrebbe valere altresì nel contesto nigerino, dove la volontarietà potrebbe essere viziata dalle avverse condizioni climatiche, dalle misere condizioni di vita, dall’esaurimento mentale e fisico determinato dal viaggio verso l’Europa e dalla necessità di un alloggio[33]. In relazione a ciò, basti considerare che il Niger, ultima tappa del viaggio dei migranti prima dell’inferno libico, è uno degli Stati più poveri al mondo, 189esimo su 189 Paesi secondo l’indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite[34]; flagellato dal cambiamento climatico e da conflitti che causano migliaia di sfollati interni; in cui 2,3 milioni di persone su una popolazione totale di circa 23 milioni hanno necessità di aiuti umanitari urgenti[35].

Secondo, anche laddove un migrante non rientri prima facie nel mandato Acnur, questi potrebbe comunque essere a rischio di refoulement, laddove si convenga con chi ritiene che il contenuto del corrispondente divieto nel diritto internazionale consuetudinario sia più ampio di quanto codificato nella Convenzione sullo status dei rifugiati, estendendosi a quelle situazioni nelle quali sussista un reale rischio di danno irreparabile derivante da tortura, trattamenti inumani e degradanti, e altre serie violazioni del diritto internazionale dei diritti umani[36]. Senza pretesa di completezza, ciò include la violazione del diritto a un equo processo, del diritto alla vita, o forme gravi di violenza sessuale e di genere, incluse le mutilazioni genitali femminili e il divieto di schiavitù. Recentissimamente, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha affermato che «the effects of climate change (…) may expose individuals to a violations of their rights under article 6 or 7 [del Patto sui diritti civili e politici], thereby triggering the non-refoulement obligations of sending states»[37]. Secondo l’Asgi, 86 cittadini somali – nazionalità a cui, nel 90% dei casi, è riconosciuta in Italia la protezione internazionale – e taluni cittadini eritrei – che godrebbero dello status di rifugiati persino in Libia – sono stati recentemente rimpatriati dall’Oim nell’ambito del programma HVR dalla Libia; quanto agli eritrei, «almeno uno è stato rintracciato dalla polizia eritrea ed è dovuto nuovamente fuggire dal proprio paese»[38]. Inoltre, i migranti che hanno subìto torture o altri trattamenti crudeli, inumani e degradanti in Libia e altre gravi violazioni dei diritti umani negli Stati di transito non dovrebbero essere trasferiti in uno Stato che non offra e garantisca loro adeguati servizi sanitari e riabilitativi, mentre dovrebbe essergli garantito un rimedio per le menzionate violazioni. Secondo il Relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani dei migranti, al contrario, l’Oim non identificherebbe in modo sistematico le vittime di tortura[39]. Lo stesso vale per i migranti particolarmente vulnerabili, quali le vittime di tratta, i minori e le persone con disabilità, tutte categorie che l’Oim non fa mistero di includere nei programmi HVR/AVR[40]. Inoltre, il Relatore nota come non sia offerta alcuna assistenza, nell’ambito dei due programmi, ai migranti che vogliano ottenere una riparazione per le violazioni dei diritti umani di cui sono rimasti vittime nel corso del proprio viaggio[41]. La situazione appare talmente grave che, già nel marzo del 2018, l’ufficio dell’Alto commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite organizzava un incontro tra esperti sul tema dei rimpatri, con un focus sui rimpatri condotti dall’Oim[42].

Terzo, deve inoltre notarsi come l’Oim non sia trasparente quanto alle procedure di valutazione delle posizioni individuali dei migranti in Libia e Niger ai fini dell’inserimento nei programmi HVR/AVR. Ciò conduce al terzo motivo di criticità, relativo alle procedure utilizzate. In via generale, si noti come sia ampiamente accettato che il divieto di refoulement implichi il diritto a una valutazione individuale della posizione di ciascun migrante, alla luce dei principi dell’equo processo[43]. In pratica, ciò comporta ad esempio che il migrante debba avere accesso all’assistenza legale e a un interprete, e che sia previsto un rimedio. Eppure, chi scrive non ha potuto reperire un documento nel quale le procedure utilizzate dall’Oim siano dettagliate. Ad esempio, il Memorandum d’intesa tra il Niger, l’Acnur e l’Oim si limita a prevedere che l’Oim identifichi i migranti ospitati presso i propri “centri di transito”, trasferendo coloro che abbiano prima facie diritto allo status di rifugiati secondo l’ordinamento nigerino presso le strutture dell’Acnur; rispetto a tutti gli altri, si stabilisce laconicamente che l’Oim «offrira le retour vers le pays d’origine»[44]. Si può presumere che la mancata pubblicazione delle procedure sia una conseguenza del fatto che l’Oim si consideri una “non-normative organization”, a cui è stato affidato un mandato meramente operativo[45]. Molto generalmente, l’Oim afferma che, nell’esecuzione dei programmi HVR/AVR, sono «key policy considerations» la salvaguardia della dignità e dei diritti dei migranti, «while seeking adherence to applicable international principles and standards»[46]. In relazione a ciò, deve anzitutto sottolinearsi come il rispetto dei diritti umani non sia una scelta di policy (altrove, l’Oim parla di «vision»[47]) quanto un obbligo giuridico in capo all’Oim, quale organizzazione internazionale dotata di personalità giuridica di diritto internazionale e pertanto destinataria delle norme consuetudinarie sui diritti umani[48] – e ciò a prescindere dal fatto che il trattato istitutivo dell’Organizzazione, la cd. «Costituzione» del 1953, non contenga riferimenti al diritto internazionale e, più specificamente, ai diritti umani[49]. In secondo luogo, l’obbligo di cui l’Oim è destinataria nell’operare i rimpatri non è di “seek adherence” con i diritti umani (terminologia inadatta al contesto dei diritti civili e politici), ma di rispettarli. Nonostante ciò, il Relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani dei migranti segnala come manchi un meccanismo di monitoraggio sul rispetto dei diritti umani prima, durante e dopo i rimpatri e mostra preoccupazione per la condivisione dei dati biometrici raccolti dall’Oim con gli Stati di origine[50].

In conclusione, la situazione di fatto brevemente illustrata consente di affermare che nei centri di detenzione libici si commettono violazioni dei divieti, posti da norme di natura consuetudinaria, di tortura, trattamenti inumani e degradanti e schiavitù[51]. Inoltre, consente di dubitare che gli HVR/AVR dalla Libia e dal Niger siano conformi al contenuto consuetudinario del divieto di refoulement, nei casi in cui i rimpatri non possano considerarsi volontari in quanto viziati dalla mancanza di alternative e gli individui rimpatriati corrano il rischio concreto di danno irreparabile derivante da tortura, trattamenti inumani e degradanti, e altre serie violazioni del diritto internazionale dei diritti umani.

Rilevate così le possibili violazioni del diritto internazionale sottese ai due descritti strumenti di pull-back, il paragrafo che segue si occuperà di comprendere come l’Italia sia associata a tali fenomeni secondo una prospettiva di diritto internazionale.

 

3. L’Italia e l’esternalizzazione delle frontiere in Libia e Niger

Come accennato nel paragrafo introduttivo, l’esternalizzazione della gestione dei flussi migratori e dei controlli alle frontiere interessa il diritto internazionale in quanto si realizza, in gran parte, attraverso la conclusione di accordi internazionali tra gli Stati di transito e di destinazione dei migranti. In forza di tali accordi, i primi si impegnano ad attuare misure di pull-back per impedire che i migranti raggiungano il territorio dei secondi, ricevendo da questi ultimi gli aiuti (finanziari, logistici e tecnologici) necessari all’adempimento degli obblighi assunti. Inoltre, ciò può accadere anche attraverso la conclusione di intese tra gli Stati di destinazione e le organizzazioni internazionali che si occupano di gestione delle migrazioni.

In questo schema rientra l’intensa cooperazione tra l’Italia da una parte e il Niger, la Libia e le organizzazioni internazionali che operano sul territorio di entrambi gli Stati dall’altra, allo scopo di impedire che i migranti riescano a imbarcarsi per raggiungere le coste italiane. Non è affatto semplice offrire in poche pagine uno sguardo d’insieme su tali forme di cooperazione, soprattutto perché non andrebbero studiate in modo isolato. Difatti, esse si inseriscono nel più ampio contesto della politica sull’immigrazione dell’Unione, da cui traggono incoraggiamento e giustificazione. Ai fini del presente contributo, basti fare riferimento all’«Accordo costitutivo del Fondo fiduciario dell’Unione per l’Africa» del 2015, utilizzato per la gestione dei fondi nell’ambito della cooperazione allo sviluppo in Africa[52]; al «Quadro di partenariato sulla migrazione con i Paesi terzi» del 2016, che ha rappresentato lo stimolo per la conclusione di intese, anche caratterizzate da un significativo livello di informalità, con Stati terzi e organizzazioni internazionali[53]; e alla «Dichiarazione congiunta» del 28 agosto 2017 tra Francia, Germania, Italia, Spagna, Ciad, Niger, Libia e l’Alta rappresentante dell’Unione, che fissa l’obiettivo strategico di creare «the conditions for irregular migrants (…) to be returned to their countries of origin (…) preferably on a voluntary basis». A tale scopo, ci si impegna a supportare l’Oim in Niger e Libia (al fine di «boosting voluntary returns») e il lavoro dell’Acnur e dell’Oim nei centri per migranti[54].

Inoltre, la cooperazione italiana in Libia e Niger in materia di detenzione e rimpatri si intreccia, da una parte, con le operazioni condotte nel Mediterraneo centrale dalle Nazioni Unite, dall’Unione europea e dalla Nato[55]; dall’altra, con le operazioni militari italiane tese a rafforzare i confini libici e nigerini: MIASIT, ossia la «Missione bilaterale di assistenza e supporto in Libia», che dal gennaio 2018 ha preso il posto dell’“Operazione Ippocrate” con l’obiettivo, tra gli altri, di fornire supporto tecnico-manutentivo alla cd. Guardia costiera libica; e MISIN, un’operazione militare bilaterale di supporto al Niger che, sempre a partire da settembre 2018, mira, secondo la (ex) ministra della difesa Trenta, ad «arginare, insieme, la tratta di essere umani e il traffico di migranti che attraversano il paese, per poi dirigersi verso la Libia e in definitiva imbarcarsi verso le nostre coste»[56].

Tenendo tale complessità a mente, si cercherà nelle pagine che seguono di isolare la posizione italiana seguendo un criterio cronologico, con un focus sulla gestione dei centri di detenzione e sui rimpatri.

La cooperazione italo-libica in materia di immigrazione si basa sull’ampio «Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione» del 2008, il cui art. 19 costituisce il fondamento per definire «iniziative (…) per prevenire il fenomeno dell’immigrazione clandestina nei Paesi di origine dei flussi migratori». In esecuzione di tale trattato, venne siglato nel febbraio del 2009 un protocollo di attuazione per l’organizzazione di pattugliamenti marittimi congiunti davanti alle coste libiche, che si concretizzarono tra l’altro in respingimenti collettivi condotti dall’Italia in alto mare, sanzionati dalla Corte Edu nel caso Hirsi del 2012[57]. La condanna nel caso Hirsi e lo scoppio della guerra civile in Libia nel 2011 comportarono di fatto un ricorso limitato ai citati strumenti, tanto che, di fronte alla “crisi migratoria” più recente, e anche dietro lo stimolo politico dell’Unione europea, l’Italia concluse il 2 febbraio 2017 con la Libia di Al-Sarraj l’ormai noto «Memorandum d’intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere tra lo Stato delle Libia e la Repubblica italiana» (d’ora in avanti: “Memorandum”)[58]. Il Memorandum, rinnovatosi tacitamente il 3 febbraio 2020, doveva essere modificato secondo le linee dettate da una commissione congiunta italo-libica. La situazione volatile sul territorio libico e questioni di politica interna italiana hanno però bloccato quest’iniziativa, per cui il Memorandum resta, nel momento in cui si scrive, invariato. Il 30 gennaio 2020, in audizione al Senato della Repubblica, il Ministro degli esteri italiano, dopo aver dato notizia dell’avvio di un dialogo con il Governo Sarraj teso a una revisione del Memorandum, ha dichiarato che:

«Qualcuno diceva (…) voi non dovete parlare di miglioramento delle condizioni nei centri di detenzione. È vero. Perché, si dice, i centri di detenzione vanno chiusi. È vero. Ma allo stesso tempo il processo che noi dobbiamo portare avanti con l’Unhcr e l’Iom è quello sia di investire sui rimpatri volontari e, due, comunque creare dei centri di accoglienza lì – che non hanno niente a che vedere con i centri di detenzione – sotto l’egida delle Nazioni Unite»[59].

In effetti, la proposta di revisione italiana, pubblicata in esclusiva da Avvenire il 12 febbraio 2020[60], non è tesa a cessare la cooperazione italo-libica sui centri di detenzione – nella bozza di revisione definiti «centri di accoglienza» (sic) –, come da più parti richiesto. Al contrario, si parla di un «progressivo superamento del sistema» (art. 2, comma 2, lett. a) e, con un’eccessiva dose di naïveté, si chiede alla Libia di impegnarsi a escludere dai centri il personale «che non abbia adeguate credenziali in materia di diritti umani» e di «favorire l’istituzione di un sistema di strutture posto sotto il controllo del Ministero della Giustizia libico e basato sullo Stato di diritto, su procedure giudiziarie chiare e sui principi del giusto processo» (ibid. e art. 2, comma 2, lett. b). Nel momento in cui si scrive, non è dato sapere altro circa lo stato di avanzamento del negoziato. Pertanto, nelle pagine che seguono si analizzerà il Memorandum nella sua versione del 2017 e, nonostante le diverse questioni che verrebbero in rilievo (ad esempio, l’utilizzo dell’espressione «immigrazione clandestina» – come se nessuno dei migranti giunti in Italia attraverso la Libia avesse diritto alla protezione internazionale nel nostro Paese), tutte meritevoli di approfondimento, ai fini del presente contributo ci si limiterà a discutere solo di alcune disposizioni, di cui fra poche righe. Prima di procedere a tale esame, però, devono enunciarsi due postulati su cui si fonda l’analisi che segue.

Primo, nonostante le resistenze del Governo italiano – secondo cui il Memorandum sarebbe un’intesa tecnica priva di carattere giuridico –, il Memorandum deve qualificarsi come un trattato regolato dal diritto internazionale. Di conseguenza, è doveroso contestarne la conclusione in forma semplificata, data la riserva di legge di cui all’art. 80 Cost. relativa ai trattati di natura politica. Sul punto si rinvia a chi in dottrina ha già brillantemente discusso del tema[61].

Secondo, si analizzerà il Memorandum presupponendone la non estinzione. Ciò non è affatto scontato, posto che esso è stato concluso con il Governo guidato da Al-Sarraj che, se al momento in cui si scrive risulta ancora essere il governo legittimo della Libia, non è detto lo sia quando questo contributo sarà pubblicato o nel periodo successivo alla sua pubblicazione, a causa del conflitto scatenato dal generale Haftar con l’obiettivo di ottenere il controllo effettivo dell’intero Paese. Resta comunque ferma, secondo quanto si dirà nel paragrafo successivo, la responsabilità italiana per le violazioni antecedenti all’eventuale estinzione del trattato.

Ciò detto, è possibile ora analizzare il contenuto del Memorandum a partire dal suo oggetto e scopo che, come chiarito dal nono considerando del preambolo, è proprio quello di instaurare una cooperazione tesa a rendere operativi i due strumenti di pull-back della detenzione dei migranti e dei rimpatri – «le Parti (…) sono determinate a (…) cooperare (…) attraverso la predisposizione dei campi di accoglienza temporanei in Libia, sotto l’esclusivo controllo del Ministero dell’Interno libico, in attesa del rimpatrio o del rientro volontario nei paesi di origine». Nella parte operativa esso prevede: (i) all’art. 1(A), un generico impegno a cooperare al fine di sostenere «le istituzioni di sicurezza e militari al fine di arginare i flussi di migranti illegali»; (ii) all’art. 1(C), l’impegno italiano a «fornire supporto tecnico e tecnologico (…) [agli] organi e dipartimenti competenti presso il Ministero dell’Interno» libico; (iii) all’art. 2(2)-(3), il più specifico impegno ad adeguare e finanziare i «centri di accoglienza» (sic) e a formare il personale libico che lì vi opera; (iv) all’art. 2(5), l’impegno a sostenere «le organizzazioni internazionali presenti e che operano in Libia (…) a proseguire gli sforzi mirati anche al rientro dei migranti nei propri paesi d’origine, compreso il rientro volontario»; (v) infine, all’art. 4, l’obbligo italiano di provvedere «al finanziamento delle iniziative menzionate in questo Memorandum», ivi inclusi, dunque, i centri di detenzione e il personale lì impiegato. A fronte della conclusione del Memorandum, il numero dei migranti giunti in Italia attraverso la Libia si è drasticamente ridotto: secondo i dati dell’Oim, se nel 2016 sono arrivati via mare in Italia 181.436 migranti, già nel 2018 tale numero era sceso a 23.370, per crollare a 11.471 nel 2019[62].

Anche per adempiere agli obblighi assunti con l’art. 4 del Memorandum, l’Italia ha creato – con la legge di bilancio di previsione dello Stato per il 2017 – uno strumento, il cd. “Fondo Africa”, che ha permesso di stanziare, per decreto del Ministro degli affari esteri, 200 milioni di euro nell’anno 2017, 30 milioni nel 2018 e 50 milioni nel 2019[63]. Nel momento in cui si scrive, il decreto relativo al 2020 non risulta ancora approvato. Il decreto del 2017, a cui i successivi si rifanno, qualifica la Libia e il Niger come Paesi di priorità strategica (preambolo e art. 2, comma 2); inoltre, elenca fra le priorità di intervento i «programmi di accoglienza e assistenza ai migranti e ai rifugiati» e i «rimpatri volontari assistiti» (art. 3, comma 1). Per quanto riguarda gli enti attuatori, rileva ai fini del presente contributo che il Fondo Africa operi (i) sia sulla base di intese tecniche concluse dal Ministero degli affari esteri con organizzazioni internazionali, con l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (d’ora in avanti Aics) e con il Ministero dell’interno (che poi, a loro volta, concludono intese con organizzazioni internazionali e non governative) che (ii) attraverso il sopracitato Fondo fiduciario dell’Unione.

Quanto alle prime, risultano ad esempio dal sito dell’Aics almeno due linee di finanziamento espressamente dirette a interventi nei centri di detenzione in Libia[64], mentre il sito del Ministero degli affari esteri pubblica una serie di intese concluse con l’Oim dirette a sostenere il programma AVR dal Niger[65]. In relazione a queste intese, è necessario aprire qui una brevissima parentesi sulla natura dell’Oim e sulla formazione del suo bilancio.

Quanto alla natura giuridica, l’Oim è un’organizzazione internazionale creata tramite trattato, la già citata «Costituzione» del 1953, che nel 2016 è entrata a far parte del sistema delle Nazioni Unite tramite la conclusione di un accordo che la qualifica come una «UN-related organization»: in breve, ciò comporta che l’Oim mantiene la propria indipendenza e autonomia, nel rispetto dei principi e degli obiettivi della Carta delle Nazioni Unite. Nonostante ciò, l’Oim è vista da più parti non tanto come un’organizzazione che opera su delega degli Stati membri verso l’ottenimento di un bene comune, quanto più come un “service provider” per i suoi Stati membri, che lavora sulla base delle istruzioni fornite direttamente dagli Stati con i quali conclude intese per la realizzazione di progetti, perciò riflettendone gli interessi specifici nella sua azione[66].

Ciò è particolarmente evidente quando si guardi alla formazione del bilancio dell’Organizzazione – comunemente definita “donor-driven” –: la parte “operativa” (ossia non meramente amministrativa) del suo bilancio dipende dai contributi volontari degli Stati; inoltre, ciascuno Stato contributore può (ma non deve) stipulare con l’Oim i termini e le condizioni dell’utilizzo di tali contributi (art. 20(23) Costituzione del 1953), che altrimenti restano liberamente allocabili dall’Oim stessa. L’Italia, come emerge dall’ultimo bilancio dell’Oim[67], contribuisce unicamente con fondi “earmarked”, ossia vincolati alla realizzazione di progetti specifici. Questo sistema è largamente criticato in dottrina, posto che «the power unilaterally to increase or decrease contributions puts a strong instrument of pressure into the hands of the States that contribute, or might contribute, generously»[68]. Nonostante, però, i fondi che l’Italia destina all’Oim siano vincolati allo svolgimento di specifiche attività, l’Asgi, che ha recentemente ottenuto il testo di tali intese a seguito di richiesta di accesso civico al Ministero degli affari esteri, nota come il loro contenuto sia generico. In particolare, il Ministero ha dichiarato di «non aver richiesto (…) garanzie o un’analisi dei possibili rischi legati all’attuazione del progetto». Di converso, il Ministero ha negato l’accesso ai rendiconti di tali attività; avverso tale diniego, l’Asgi ha presentato ricorso, attualmente pendente al Tar Lazio[69]. Si noti come sia proprio in esecuzione di tali intese che, secondo l’Asgi, l’Oim avrebbe rimpatriato i cittadini somali ed eritrei menzionati sopra, oltre che migranti vittime di tratta, minori non accompagnati e persone affette da gravi malattie.

Quanto al transito dei finanziamenti dal Fondo Africa al Fondo fiduciario dell’Unione, l’Italia risulta essere il secondo Paese contributore dopo la Germania. Attraverso il Fondo si finanziano i programmi HVR/AVR dell’Oim sia dal Niger che dalla Libia e le attività delle organizzazioni internazionali e non governative nei centri di detenzione libici[70]. Esiste poi uno specifico progetto, denominato «Support to integrated border and migration management in Libya», che vede come unico partner attuatore il Ministero degli interni italiano. In forza di tale progetto, si assiste direttamente (tra gli altri) il Dipartimento del Ministero degli interni del Governo Sarraj che gestisce i centri di detenzione[71].

A fronte delle forme di cooperazione instaurate dall’Italia che danno vita ai due strumenti di pull-back appena descritti, è lecito chiedersi se esse non comportino una responsabilità congiunta o autonoma del nostro Paese per le risultanti violazioni del diritto internazionale descritte al paragrafo 2.

 

4. Sulla responsabilità italiana per le violazioni del diritto internazionale connesse alla gestione dei centri di detenzione in Libia e ai rimpatri volontari dalla Libia e dal Niger

L’esternalizzazione realizzata attraverso la cooperazione con Stati terzi e organizzazioni internazionali non esonera gli Stati di destinazione dei migranti dal rispetto degli obblighi derivanti dal diritto internazionale. Ciò riguarda in particolare l’Italia, che realizza parte della propria politica di controllo alle frontiere fermando i migranti (molto) prima dei suoi confini fisici. A tal proposito, bisogna domandarsi se la responsabilità per le violazioni dei diritti umani che i migranti subiscono a causa dell’esternalizzazione operata dall’Italia in Libia e Niger non possa ascriversi in qualche modo all’Italia stessa. In diritto internazionale, la responsabilità è regolata da norme secondarie, che vengono in rilievo quando una norma primaria sia violata. Il contenuto consuetudinario delle norme secondarie sulla responsabilità è in gran parte rinvenibile nel Progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati (d’ora in avanti DARS) e nel Progetto di articoli sulla responsabilità delle organizzazioni internazionali (d’ora in avanti DARIO).

Partendo dalle violazioni commesse all’interno dei centri di detenzione in Libia, la situazione di fatto brevemente illustrata nel paragrafo 2 consente di affermare anzitutto la responsabilità dello Stato libico: la Libia, infatti, attraverso le condotte dei suoi organi o di privati o di gruppi di privati sottoposti al suo controllo o che esercitano prerogative dell’attività di governo, è responsabile per la violazione dei divieti di tortura, trattamenti inumani e degradanti e schiavitù commessi all’interno dei centri di detenzione[72]. Tali divieti vincolano la Libia sia in quanto posti da norme pattizie che da norme di natura consuetudinaria. Ciò evidentemente non esclude una congiunta responsabilità italiana. In particolare, in dottrina si è fatto leva sulla fattispecie disciplinata all’art. 16 DARS, secondo cui:

«A State which aids or assists another in the commission of an internationally wrongful act by the latter is internationally responsible for doing so if: (a) that State does so with knowledge of the circumstances of the internationally wrongful act; and (b) the act would be internationally wrongful if committed by that State».

In forza di tale norma, l’Italia sarebbe da ritenersi responsabile per l’aiuto o l’assistenza fornite alla commissione dei sopra citati illeciti posti in essere dalla Libia all’interno dei centri di detenzione. È evidente infatti che tutti gli elementi della fattispecie citata – che, secondo la Corte internazionale di giustizia, riflette il diritto consuetudinario[73] – risultano integrati. Quanto all’elemento materiale, deve anzitutto rilevarsi come la condotta dell’assistente, che ha natura accessoria rispetto all’illecito principale, può essere di per sé lecita e realizzarsi, ad esempio, attraverso la conclusione di un accordo internazionale, proprio come nel caso degli accordi italo-libici descritti al paragrafo 3[74]. Inoltre, è necessario un nesso eziologico tra la condotta accessoria e il fatto illecito commesso dallo Stato assistito, tale che la prima sia sufficiente ad agevolare il secondo. È chiaro che i finanziamenti, il supporto logistico e l’addestramento fornito dall’Italia alla Libia destinati al mantenimento dei centri di detenzione siano sufficienti ad agevolare le violazioni dei diritti umani ivi commesse. Quanto all’elemento soggettivo, l’art. 16 DARS richiede la rappresentazione in capo allo Stato assistente delle circostanze del fatto principale, mentre si ritiene generalmente che non sia richiesto il dolo[75]. Se anche il dolo fosse richiesto, si nota in dottrina come, nel caso di violazione di norme erga omnes – quali sono i divieti di tortura e schiavitù – opererebbero talune presunzioni: tra le altre, l’elemento soggettivo sarebbe integrato quando l’illecito principale è manifesto[76]. Nel caso in esame, dunque, anche laddove si facesse propria quest’ultima, più stringente interpretazione dell’elemento soggettivo, comunque la conoscenza da parte dell’Italia delle gravi violazioni dei diritti umani commesse nei centri di detenzione libici non potrebbe che dirsi piena e le violazioni manifeste. Infine, anche l’elemento della cd. opposability di cui all’art. 16(b) DARS risulta integrato, poiché tutti gli obblighi che si lamentano violati (divieto di tortura, trattamenti inumani e degradanti, schiavitù) incombono sia sulla Libia che sull’Italia, in quanto discendono da norme di diritto internazionale consuetudinario che si impongono a tutti gli Stati. In conclusione, chi scrive concorda con chi ritiene l’Italia responsabile, in quanto assistente, delle violazioni dei diritti umani commesse nei centri di detenzione libici.

Inoltre, vi è chi ha sostenuto che le condotte e omissioni italiane integrino una responsabilità autonoma di tale Stato.

Primo, quando la condotta di assistenza non è solo sufficiente ad agevolare il fatto illecito principale, ma risulta invece essenziale alla sua commissione, allora lo Stato assistente è direttamente responsabile per il fatto principale assieme allo Stato assistito, secondo i termini dell’art. 47(1) DARS[77]. Se una tale insinuazione può farsi rispetto alle condotte della cd. Guardia costiera libica, la cui esistenza da alcune parti è ricondotta esclusivamente ai finanziamenti e agli apporti tecnico-logistici italiani[78], lo stesso non sembra potersi sostenere quanto ai centri di detenzione, salvo prova contraria. Chi scrive ritiene dunque che l’Italia, secondo le informazioni ad oggi pubbliche, non possa ritenersi responsabile in solido con la Libia.

Secondo, vi è chi ritiene che la responsabilità italiana risulterebbe da una sua condotta omissiva: sull’Italia gravano infatti degli obblighi positivi di due diligence insiti nei divieti di tortura e schiavitù, discendenti da trattati e consuetudini vincolanti sia per l’Italia che per la Libia, che l’Italia violerebbe direttamente. In particolare, l’Italia non avrebbe adottato tutte le misure ragionevoli in proprio potere al fine di prevenire le violazioni poste in essere dalla Libia, Stato sulle cui condotte l’Italia esercita un’influenza decisiva, ossia un’influenza tale che, senza l’apporto italiano, la Libia non condurrebbe i migranti presso i centri di detenzione[79].

Terzo, vi è chi ha fatto riferimento all’art. 41(2) DARS, secondo cui «[n]o State shall recognize as lawful a situation created by a serious breach within the meaning of article 40, nor render aid or assistance in maintaining that situation», laddove l’art. 40 DARS fa riferimento alla violazione di obblighi discendenti da norme imperative del diritto internazionale, che includono certamente i divieti di schiavitù e tortura[80]. L’art. 40(2) DARS, in altre parole, si occupa di quanto accade dopo la commissione del fatto illecito principale, imponendo – per quanto qui ci interessa – un obbligo di non facere, ossia di non agevolare uno Stato terzo nel mantenere la situazione di fatto derivante da una violazione di una norma imperativa. A differenza dell’art. 16 DARS, qui l’elemento soggettivo è presunto, data la portata del bene giuridico protetto dalla norma violata. Chi scrive condivide l’opinione di coloro che sostengono che l’Italia stia assistendo la Libia nel mantenere la situazione di fatto scaturente dalle gravi violazioni dei diritti umani commesse all’interno dei centri di detenzione, attraverso la stessa condotta materiale che integra anche la fattispecie ex art. 16 DARS, sopra descritta[81]. Ciò sarebbe a maggior ragione dimostrato dal perdurare della cooperazione italo-libica e in particolare dall’attuale negoziato sul Memorandum: l’Italia, infatti, in modo cristallino, non si pone fra i propri obiettivi futuri quello di interrompere i finanziamenti e gli apporti tecnico-logistici al sistema dei centri di detenzione libici, nonostante le violazioni di norme imperative ivi commesse siano oramai fatti notori.

Quanto ai rimpatri condotti dall’Oim, i fatti esposti al paragrafo 2 consentono di dubitare che la condotta degli organi dell’Organizzazione che operano gli HVR/AVR dalla Libia e dal Niger sia conforme al contenuto consuetudinario del divieto di refoulement, nei casi in cui i rimpatri non possano considerarsi volontari in quanto viziati dalla mancanza di alternative e gli individui rimpatriati corrano il rischio concreto di danno irreparabile derivante da tortura, trattamenti inumani e degradanti, e altre serie violazioni del diritto internazionale dei diritti umani. In relazione a ciò, deve aprirsi una breve parentesi relativa all’assunto che il divieto in parola gravi sulle organizzazioni internazionali; questo, difatti, è evidentemente il presupposto della presente analisi, posto che non può esservi responsabilità congiunta (dell’Italia) se la norma primaria non si dirige nei confronti del soggetto che pone in essere la condotta rilevante (l’Oim). Vi è, però, chi ha sostenuto che le organizzazioni internazionali, in quanto prive di territorio, non potrebbero dirsi destinatarie dell’obbligo di non respingimento[82]. Purtroppo, non vi è qui lo spazio per condurre un’analisi approfondita di questo tema. Ci si limiterà perciò a dire, in modo colpevolmente apodittico, che, discendendo l’obbligo in parola dal diritto consuetudinario, esso si dirige anche nei confronti delle organizzazioni internazionali, nei limiti dei rispettivi trattati istitutivi; e certamente si dirige nei confronti dell’Oim, organizzazione più di altre in grado di incidere su coloro che ricevono protezione dal divieto, per via delle sue funzioni e secondo un’interpretazione della sua «Costituzione» orientata alla Carta delle Nazioni Unite[83]. Laddove non si convenisse con tale opinione, si potrebbe comunque sostenere che, assurgendo il nucleo del divieto in parola a diritto imperativo, la Costituzione dell’Oim sarebbe invalida se in contrasto con esso, alla luce dell’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati[84]. Inoltre, e ad ogni modo, in dottrina non vi è completo accordo circa il contenuto dell’obbligo consuetudinario di non respingimento, segnatamente se esso si esaurisca in un obbligo negativo o se includa anche un obbligo di facere. Chi scrive aderisce alla tesi per cui tale divieto deve dirsi composto sia di un elemento negativo – di non facere, di non respingere – che positivo – di adoperarsi al fine di facilitare l’espletamento delle procedure di riconoscimento della protezione internazionale. Se si sostenesse diversamente, il principio di non respingimento sarebbe di fatto inefficace. In conclusione, nel caso prospettato, si può dubitare che gli organi dell’Oim rispettino il divieto di respingimento in ogni circostanza di rimpatrio volontario, inteso sia come obbligo negativo (ad esempio, obbligo di non rimpatriare i cittadini di certe nazionalità, come gli eritrei) che positivo, nella misura in cui l’Oim non garantirebbe una piena valutazione individuale della posizione di ciascun migrante, alla luce dei principi dell’equo processo. Da ciò discenderebbe una responsabilità dell’Oim per fatto illecito internazionale[85].

Se ciò è vero, allora sarà ancora l’assistenza italiana a venire in rilievo secondo il già citato art. 16 DARS, integrato, se necessario, dalle disposizioni rilevanti dei DARIO[86]. Tutti gli elementi della fattispecie dell’assistenza risultano difatti presenti[87]: la condotta materiale consisterebbe nella conclusione di intese per il conferimento di finanziamenti destinati a specifici progetti diretti a operare i rimpatri; tale condotta sarebbe sufficiente ad agevolare la commissione dell’illecito; l’elemento soggettivo della piena conoscenza risulterebbe soddisfatto, posto che l’Italia sovvenziona l’Oim proprio perché l’organizzazione proceda ai rimpatri e dati i citati rapporti di ong, associazioni di avvocati, relatori speciali delle Nazioni Unite e organi di stampa che documentano le violazioni sottostanti i rimpatri operati dall’Oim; e, infine, il divieto di refoulement (per quanto si è detto sopra) incombe sia sull’Oim che sull’Italia.

Inoltre, potrebbe profilarsi anche una responsabilità autonoma dell’Italia, risultante dalla violazione degli obblighi positivi di due diligence insiti nel divieto di refoulement, anche discendenti da trattati, gravanti sull’Italia. Si pensi alle affermazioni del Ministero degli affari esteri riportate nel paragrafo 3 e rese note da Asgi, secondo cui il Ministero, nel concludere intese con l’Oim, non richiederebbe garanzie o analisi dei rischi legati all’attuazione dei progetti finanziati. Se ciò fosse vero, l’Italia non avrebbe né adottato tutte le misure ragionevoli in proprio potere al fine di prevenire le violazioni del non-refoulement poste in essere da un altro ente al di fuori del proprio territorio; né avrebbe fatto tutto il possibile affinché sia assicurato l’effetto utile del divieto in parola. Si ritiene infatti da più parti che, in relazione al non respingimento, gli Stati sono responsabili quando non si adoperano sufficientemente nelle situazioni sottratte al loro controllo esclusivo, ma sul cui svolgimento possono influire. Sul punto, la dottrina si divide fra chi ritiene che, perché possa profilarsi una tale responsabilità, sia necessario che l’obbligo vincoli tutti i soggetti coinvolti[88]; e chi invece sostiene sia sufficiente che l’obbligo gravi sul soggetto che ha agito non diligentemente[89]. Se si ritenesse corretta quest’ultima ipotesi, ne risulterebbe che l’Italia potrebbe comunque dirsi responsabile per la violazione degli obblighi di due diligence a prescindere dal fatto che il divieto di refoulement si indirizzi o meno all’Oim: un tale meccanismo impedirebbe agli Stati di liberarsi degli obblighi su di essi incombenti semplicemente trasferendo le proprie funzioni a un’organizzazione internazionale[90]. Ciò si lega, inoltre, al principio di buona fede nell’attuazione degli obblighi internazionali. Secondo il Relatore speciale delle Nazioni unite sulla tortura, ogni partecipazione, incoraggiamento o assistenza fornita dagli Stati di destinazione alle operazioni di pull-back è infatti irriconciliabile con un’interpretazione ed esecuzione del divieto di respingimento ispirate al principio di buona fede[91].

In conclusione, si può affermare con un elevato grado di certezza che l’Italia è responsabile come assistente per le violazioni dei diritti umani commesse nei centri di detenzione libici e per aver mantenuto la situazione di fatto scaturente da tali violazioni, sino ad oggi. Inoltre, laddove si concordi con l’opinione sopra espressa circa la portata dell’obbligo di non-refoulement, l’Italia è responsabile come assistente per le violazioni del corrispondente divieto commesse dall’Oim nell’ambito dei programmi HVR/AVR e per la violazione degli obblighi di due diligence insiti nel non-refoulement stesso. Si noti in proposito che, sia in relazione al caso dei centri di detenzione libici che a quello dei rimpatri, i divieti di schiavitù e tortura – e il divieto di refoulement ad essi collegato – sono assoluti: ossia, ad essi non può in nessun caso derogarsi, neppure in occasione di un conflitto armato o di un’emergenza nazionale, inclusa una presunta “crisi migratoria”, né in relazione ad essi è possibile invocare cause di esclusione del fatto illecito, quale ad esempio lo stato di necessità.

Nonostante ciò, le chances che la responsabilità dell’Italia venga invocata di fronte a un tribunale internazionale sulla scorta delle norme appena citate sono scarse.

Quanto alla Corte internazionale di giustizia, risulta oggi difficile immaginare che uno Stato terzo ne possa attivare la giurisdizione invocando la violazione di norme erga omnes, per evidenti ragioni politiche e, per quanto riguarda gli Stati dell’Unione europea, per la loro possibile responsabilità congiunta[92].

Quanto invece alla Corte Edu, rilevano almeno tre questioni. La prima, e più spinosa, riguarda l’elaborazione di meccanismi giuridici per poter affermare che le violazioni commesse nei confronti dei migranti in Libia e Niger avvengano sotto la giurisdizione dell’Italia come Stato di destinazione. Nonostante infatti la violazione di un diritto sancito nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti Cedu) possa ascriversi a uno Stato, non è detto che tale Stato eserciti la propria giurisdizione sulla condotta rilevante secondo il dettato dell’art. 1 Cedu. Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte Edu, infatti, gli Stati membri della Cedu hanno giurisdizione all’interno del proprio territorio; solo eccezionalmente tale giurisdizione si estende extra-territorialmente. Ciò accade quando (i) lo Stato abbia il controllo effettivo della porzione di territorio al di fuori dei propri confini dove la violazione è posta in essere o (ii) quando un suo organo eserciti un’autorità, un potere o un controllo sull’individuo vittima della violazione. Ciò pone la maggior parte delle violazioni commesse nell’ambito di cooperazioni volte all’esternalizzazione delle frontiere al di fuori dell’alveo della giurisdizione degli Stati membri della Cedu, soprattutto da quando, a seguito della citata pronuncia della Corte Edu nel caso Hirsi, gli Stati di destinazione si guardano bene dall’avere propri organi coinvolti nelle operazioni di esternalizzazione. Per superare le difficoltà insiste nella nozione di giurisdizione ex art. 1 Cedu, il metodo più semplice appare quello di fare ricorso alle norme secondarie sulla responsabilità degli Stati, come prospettato nel presente contributo, e in particolare alla fattispecie dell’assistenza ex art. 16 DARS. Secondo una tale prospettiva, è infatti irrilevante che la condotta in violazione del diritto internazionale sia avvenuta o meno all’interno della giurisdizione dello Stato membro della Cedu, poiché ciò che si invoca è la sua responsabilità come assistente nella violazione posta in essere da uno Stato di transito non parte della Cedu o da un’organizzazione internazionale che alla Cedu non può accedere: in altre parole, secondo questa prospettiva non si pretende di attribuire al primo la condotta dei secondi.

Il problema che soffre questa ricostruzione, però – e questo è il secondo ostacolo all’affermazione delle responsabilità italiane di fronte alla Corte Edu – è che la Corte è tradizionalmente riluttante a usare i DARS e non ha mai fatto ricorso in particolare all’art. 16. Un procedimento attualmente pendente dinnanzi alla Corte – S.S. e altri c. Italia – va però seguito da vicino, poiché in esso i giudici potrebbero per la prima volta in modo inequivocabile fare riferimento all’art. 16 DARS per affermare l’assistenza italiana in un’operazione di respingimento operata dalla cd. Guardia costiera libica nel novembre del 2017. Ciò aprirebbe la strada a nuove prospettive di litigation di fronte alla Corte Edu su casi di esternalizzazione. In alternativa al ricorso alla fattispecie disciplinata all’art. 16 DARS, in dottrina si sono proposti nuovi e più ampi modelli di giurisdizione. Ad esempio, si è invocata la teoria degli effetti, per cui l’atto di uno Stato posto in essere all’interno del proprio territorio, ma che produce effetti extra-territoriali, dovrebbe ritenersi posto in essere da tale Stato nell’esercizio della propria giurisdizione. Inoltre, vi è chi ha sostenuto che la capacità di esercitare un’influenza decisiva sulle violazioni, in modo che senza tale influenza le violazioni non avrebbero avuto luogo, deve considerarsi esercizio della giurisdizione alla stregua del controllo effettivo su una porzione di territorio o su di una persona[93].

Un terzo elemento di criticità, attinente al solo caso delle violazioni poste in essere dall’Oim in connessione con i rimpatri, si aggiunge a quanto appena esposto. Secondo un orientamento consolidato, infatti, la Corte Edu dichiara inammissibili quei ricorsi in cui si lamenti una violazione della Cedu derivante da una specifica decisione assunta da un’organizzazione internazionale. Diversamente, quando il ricorrente lamenti una deficienza strutturale nel modus operandi dell’organizzazione (quale, ad esempio, l’assenza di un rimedio effettivo avverso le decisioni assunte dall’organizzazione stessa), allora la Corte accerta se gli Stati, nel trasferire parte della propria sovranità all’organizzazione, abbiano verificato che essa assicuri ai diritti sanciti nella Cedu una protezione equivalente a quella assicurata attraverso la Cedu stessa. Solo in quest’ultimo caso, dunque, potrebbe invocarsi la responsabilità dell’Italia in connessione con quella dell’Oim dinnanzi alla Corte Edu.

A prescindere dagli ostacoli appena esposti e da quanto deciderà la Corte Edu nel caso S.S. e altri c. Italia, le responsabilità italiane possono essere invocate in altri fori. Ciò include, ad esempio, i cd. human rights treaty bodies, quali il Comitato per i diritti umani e il Comitato contro la tortura delle Nazioni Unite[94]: tali Comitati sono composti da esperti indipendenti e monitorano il rispetto da parte degli Stati membri, rispettivamente, del Patto sui diritti civili e politici e della Convenzione contro la tortura. In particolare, coloro che lamentano di aver subito la violazione dei diritti sanciti nelle citate Convenzioni possono presentare ai due Comitati comunicazioni o reclami; la procedura che così si attiva si conclude con una decisione da parte del relativo Comitato, che afferma o meno la responsabilità dello Stato per la violazione lamentata. Inoltre, le norme primarie descritte nel presente contributo e le norme secondarie sulla responsabilità statale possono essere invocate nelle corti domestiche, in quanto diritto consuetudinario, e perciò essere utilizzate, ad esempio, al fine di affermare la responsabilità dello Stato in procedimenti instaurati dalle vittime per ottenere un risarcimento del danno sofferto.

 


1. P. De Sena, La nozione di giurisdizione statale nei trattati sui diritti dell’uomo, Giappichelli, Torino, 2002.

2. Cfr. M. Giuffré e V. Moreno-Lax, The rise of consensual containment: from ‘contactless control’ to ‘contactless responsibility’ for forced migration flows, in S.S. Juss (a cura di), Research Handbook on International Refugee Law, Edward Elgar, Cheltenham, 2019, pp. 82 ss.

3. Di recente vds. G. Pascale, Is Italy Internationally Responsible for the Gross Human Rights Violations against Migrants in Libya?, in Questions of International Law, vol. 56, 2019, pp. 35 ss; G. Puma, Complicità tra Stati e organizzazioni internazionali nella violazione di obblighi erga omnes, in Diritto pubblico comparato ed europeo, n. 1/2019, pp. 69 ss.

4. Ex multis S. Trevisanut, The principle of non-refoulement and the de-territorialization of border control at sea, in Leiden Journal of International Law, vol. 27, n. 3/2017, pp. 627 ss.

5. Oim, Migration Data Portal, 2019 (migrationdataportal.org/?i=stock_abs_&t=2019&cm49=434. Se non diversamente indicato, l’ultimo accesso a tutti i link citati è stato effettuato il 23 aprile 2020); Rapporto del Segretario generale delle Nazioni unite, UN Doc S/2019/19, 7 gennaio 2019, par. 55.

6. Oim, Migrants Missing in Libya a Matter of Gravest Concern, 17 aprile 2020.

7. Cfr. legge n. 6/1987 sull’organizzazione dell’ingresso, permanenza e uscita degli stranieri in Libia, art. 20; legge n. 19/2010 per combattere l’immigrazione illegale, art. 6.

8. UNSMIL, OHCHR, “Detained and dehumanised”, Report on Human Rights Abuses Against Migrants in Libya, 13 dicembre 2016, par. 5.1.

9. Oim, Libya Migrant Vulnerability and Humanitarian Needs Assessment, dicembre 2019, p. 6.

10. Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, Final report of the Panel of Experts on Libya established pursuant to resolution 1973 (2011), 1 giugno 2017, UN Doc S/2017/466, p. 103.

11. UNSMIL, OHCHR, “Detained and dehumanised”, op. cit., par. 6.4; Commissione europea, EU Emergency Trust Fund for Africa, Action Fiche of the EU Trust Fund to be used for the decisions of the Operational Committee, 12 aprile 2017, p. 5.

12. Nello Scavo, Migranti. L’Onu accusa Tripoli: «Nel 2020 fatti sparire centinaia di profughi», in Avvenire, 17 aprile 2020.

13. Oim, Nearly 1,000 Migrants Returned to Libya in the First Two Weeks of 2020: IOM, 14 gennaio 2020.

14. Ex multis: Report of the United Nations High Commissioner for Human Rights on the situation of human rights in Libya, UN Doc A/HRC/34/42, 13 gennaio 2017, pp. 9 ss; European Parliament resolution of 4 February 2016 on the situation in Libya, 2016/2537(RSP), 4 febbraio 2016, par. 10; Corte penale internazionale, Statement of ICC Prosecutor to the UNSC on the Situation in Libya, 6 novembre 2019; Unione africana, Joint Statement on the Migrant Situation in Libya, novembre 2017; I Corte assise Milano, 10 ottobre 2017, n. 10 (http://questionegiustizia.it/doc/sentenza_corte_assise_milano_10_ott_1_dic_2017.pdf); Asgi, Anche la Corte d’Assise di Agrigento riconosce la condizione di schiavitù in cui sono tenuti i migranti in Libia, 14 giugno 2018 (www.asgi.it/attivita/azioni-legali/libia-schiavitu-condanna-agrigento/).

15. Le Nazioni Unite documentano abusi verbali e fisici, utilizzo di shock elettrici, colpi di arma da fuoco, percosse e pratiche di sospensione, commesse da organi del Dipartimento. Cfr. UNSMIL, OHCHR, “Detained and dehumanised”, op. cit., pp. 17-18.

16. Documentano ispezioni corporali, sovraffollamento, limitata o assente ventilazione, accesso ai servizi di igiene, all’acqua potabile e ai servizi sanitari, malnutrizione, tra gli altri: UNSMIL, The situation of migrants in transit through Libya en route to Europe, 10 maggio 2015; UNHRC, Situation of human rights in Libya, UN Doc A/HRC/37/46, 21 febbraio 2018, par. 44.

17. Su tutti Report of the Secretary-General on the United Nations Support Mission in Libya, 12 febbraio 2018, UN Doc S/2018/140, parr. 50 ss.

18. Oim, IOM Learns of ‘Slave Market’ Conditions Endangering Migrants in North Africa, 4 novembre 2017; OHCHR, Libya must end “outrageous” auctions of enslaved people, UN experts insist, 30 novembre 2017.

19. P. Lambruschi, Migranti. Libia, l’UE trova alleati. Nei centri di detenzione continua l’orrore, in Avvenire, 22 gennaio 2020.

20. Vds. Amnesty International, Libya’s Dark Web of Collusion: Abuses Against Europe-Bound Refugees and Migrants, 11 dicembre 2017, p. 41; O. Belbeisi, Returned to Libyan shores and held in detention centres: What are the practical alternatives?, Thomson Reuters Foundation News, 18 agosto 2018.

21. Nel momento in cui si scrive, i programmi di ricollocamento di Acnur e Oim sono temporaneamente sospesi per ragioni legate alla diffusione del COVID-19. Vds. Acnur, IOM, UNHCR announce temporary suspension of resettlment travel for refugees, 17 marzo 2020

22. Oim, A Framework for Assisted Voluntary Return and Reintegration, 2016, p. 1.

23. Vds. Oim, «Costituzione» (adottata il 19 ottobre 1953, entrata in vigore il 30 novembre 1954), art. 1(d).

24. Oim, A Framework, op. cit., p. 6.

25. Ivi, p. 2, nota 6.

26. Oim, IOM Libya Update, 16-31 dicembre 2019.

27. Oim, Oim’s transit centres (www.iom.int/countries/niger).

28. Report of the Special Rapporteur on the human rights of migrants, UN Doc A/HRC/38/41, 4 maggio 2018, parr. 29-30.

29. Corte Edu, N.A. c. Finlandia, ric. n. 25244/18, 14 novembre 2019, parr. 57, 54.

30. Oim, A Framework, op. cit., p. 9.

31. Caritas Europa, Position paper on return, 9 febbraio 2018, p. 9. Vds. anche A.L. Hirsch e C. Doig, Outsourcing control: the International Organization for Migration in Indonesia, in The International Journal of Human Rights, n. 5/2018, pp. 691-692.

32. Report of the Special Rapporteur on torture and other cruel, inhumane and degrading treatment or punishment, UN Doc A/HRC/37/50, 23 novembre 2018, par. 19. Cfr. anche Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura, General Comment No. 4 (2017) on the implementation of article 3 of the Convention in the context of article 22, 9 febbraio 2018, par. 14.

33. Cfr. Relatore speciale Onu sui diritti umani dei migranti, Visit to the Niger. Report of the Special Rapporteur on the human rights of migrants, UN Doc A/HRC/41/38/Add.1, 16 maggio 2019, par. 51 (https://documents-dds-ny.un.org/doc/UNDOC/GEN/G19/140/41/PDF/G1914041.pdf?OpenElement).

34. Programma di sviluppo umano delle Nazioni Unite, Human Development Reports. Niger, 2019.

35. Nazioni Unite, UN calls for immediate strengthening of international support to Niger, 16 dicembre 2020.

36. E. Lauterpacht e D. Bethlehem, The Scope and Content of the Principle of Non-Refoulement: Opinion, in E. Feller - V. Turk - F. Nicholson (a cura di), Refugee Protection in International Law: UNHCR’s Global Consultations on International Protection, Cambridge University Press, Cambridge, 2003, pp. 140 ss.

37. Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, Views adopted by the Committee under article 5(4) of the Optional Protocol, concerning communication No. 2728/2016, UN Doc CCPR/C/127/D/2728/2016, 7 gennaio 2020, par. 9.11.

38. Asgi, L’accesso di ASGI alle attività delle Organizzazioni Internazionali in Libia (https://sciabacaoruka.asgi.it/wp-content/uploads/2020/01/Microsoft-Word-scheda-accessi-OI-finale.docx.pdf).

39. Relatore speciale Onu sui diritti umani dei migranti, Visit to the Niger, op. cit., par. 54.

40. Cfr. Oim, Return and Reintegration Highlights, 2018, pp. 33-34.

41. Relatore speciale Onu sui diritti umani dei migranti, Visit to the Niger, op. cit., par. 53.

42. Vds. Ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, Expert Meeting on Protecting the human rights of migrants in the context of return, background paper, 6 marzo 2018.

43. Ex multis G.S. Goodwin-Gill, The Right to Seek Asylum: Interception at Sea and the Principle of Non-Refoulement, in International Journal of Refugee Law, n. 3/2011, pp. 443 ss.

44. Reperibile sul sito dell’Asgi (www.asgi.it/wp-content/uploads/2019/05/memorandum_Niger_UNHCR_Oim.pdf).

45. Agreement concerning the Relationship between the United Nations and the International Organization for Migration, UN Doc A/70/976, 8 luglio 2016, art. 2(3).

46. Oim, Assisted Voluntary Return and Reintegration (www.iom.int/assisted-voluntary-return-and-reintegration).

47. Oim, Return and Reintegration Highlights, 2018, pp. 3, 51.

48. Nello stesso senso R. Cadin, Ultimi sviluppi sull’Organizzazione internazionale per le migrazioni: l’ingresso nel sistema delle Nazioni Unite e la proposta di creare una governance euro-mediterranea dei flussi migratori, in Freedom, Security & Justice: European Legal Studies, n. 3/2018, pp. 21-24.

49. Su tutti vds. V. Chetail, International Migration Law, Oxford University Press, Oxford, 2019, pp. 372 ss.

50. Report of the Special Rapporteur on the human rights of migrants, UN Doc A/HRC/38/41, 4 maggio 2018, parr. 53, 78, 81 e 36.

51. CDI, Commentary on Articles on Responsibility of States for Internationally Wrongful Acts, fifty-third Session, UN Doc. A/56/10 (2001), artt. 4, 5, 8.

52. Reperibile sul sito della Commissione (https://ec.europa.eu/trustfundforafrica/sites/euetfa/files/original_constitutive_agreement_en_with_signatures.pdf).

53. Vds. F. Casolari, L’interazione tra accordi internazionali dell’Unione europea ed accordi conclusi dagli Stati membri con Stati terzi per il contrasto dell’immigrazione irregolare, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 1/2018, pp. 2 ss.; C. Favilli, Presentazione, ivi, nn. 1-2/2016, pp. 11 ss.

54. Vds. www.governo.it/sites/governo.it/files/documenti/documenti/Notizie-allegati/governo/Parigi_20170828/Joint_Statement-20170828.pdf, pp. 1, 3, 5.

55. Ci si riferisce alle operazioni: UNSMIL delle Nazioni Unite (scadenza: 15 settembre 2020); Frontex Themis (che dal febbraio 2018 sostituisce l’operazione Joint Operation Triton, operativa dal 2014) e Eunavfor Med Sophia (che, alla scadenza del 31 marzo 2020, assumerà la nuova veste di operazione di contrasto alle condotte in violazione dell’embargo sulla fornitura di armi, obbligo da ultimo reiterato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite con la ris. S/RES/2509 (2020) par. 6-7) dell’Unione europea; Sea Guardian della Nato, nata nel 2016 in sostituzione dell’operazione Active Endeavour.

56. Vds. Al via la missione italiana in Niger dopo uno stallo durato nove mesi, Il Sole24Ore, 20 settembre 2018. Sui dubbi circa la base giuridica dell’operazione vds. A. Spagnolo, The Conclusion of Bilateral Agreements and Technical Arrangements for the Management of Migration Flows: An Overview of the Italian Practice, in Italian Yearbook of International Law, vol. 28, n. 1/2019, pp. 215 ss.

57. Corte Edu [GC], Hirsi Jamma e altri c. Italia, ric. n. 27765/09, 23 febbraio 2012.

58. Il testo è ora accessibile sia sul sito del MAE che al seguente link: www.governo.it/sites/governo.it/files/Libia.pdf.

59. Senato della Repubblica, Commissioni congiunte 3a e 4a Senato con III e IV Camera, Comunicazioni del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, Luigi Di Maio, sugli esiti della Conferenza di Berlino, 30 gennaio 2020.

60. Vds. www.avvenire.it/c/attualita/Documents/Avvenire-%20memorandum.pdf.

61. Vds. E. Olivito, Il cul-de-sac costituzionale degli accordi in forma semplificata: iniziativa legislativa parlamentare ed esternalizzazione delle politiche migratorie, in Diritto pubblico, n. 2/2018, pp. 436 ss.; A. Spagnolo, The Conclusion, op. cit., pp. 219 ss; M. Mancini, Italy’s New Migration Control Policy: Stemming the Flow of Migrants from Libya without Regard for their Human Rights, in Italian Yearbook of International Law, vol. 27, n. 1/2018, p. 262; F. De Vittor, Responsabilità degli Stati e dell’Unione europea nella conclusione e nella esecuzione di “accordi” per il controllo extraterritoriale della migrazione, in Diritti umani e diritto internazionale, n. 1/2018, pp. 8-10.

62. Oim, Flow monitoring Europe (https://migration.iom.int/europe?type=arrivals).

63. Dm 1° febbraio 2017 n. 4110/2017; dm 12 febbraio 2018 n. 4115/0423; dm 14 marzo 2019, n. 4115/527.

64. Vds. www.aics.gov.it/home-ita/opportunita/area-osc/bandi-no-profit-emergenza/.

65. Vds. www.esteri.it/mae/it/trasparenza_comunicazioni_legali/provvedimenti/accordi-stipulati-dall-amministrazione.html, sezione relativa alla DGIT.

66. Su tutti J. Klabbers, Notes on the Ideology of International Organizations Law: The International Organization of Migration, State-making, and the Market for Migration, in Leiden Journal of International Law, vol. 32, n. 3/2019, pp. 387, 395 ss.

67. Accessibile sul sito https://governingbodies.iom.int/system/files/en/council/110/C-110-3%20-%20Financial%20Report%202018.pdf, Appendix 7, p. 73.

68. H.G. Schermers e N.M. Blokker, International Institutional Law, Nijhoff, Leida, 2011 (V ed.), p. 665.

69. Vds. Asgi, L’accesso di ASGI alle attività delle Organizzazioni Internazionali in Libia, op. cit.

70. Tutti i progetti sono reperibili sul sito https://ec.europa.eu/trustfundforafrica/region/north-africa/libya e https://ec.europa.eu/trustfundforafrica/region/sahel-lake-chad/niger.

71. Vds. le due Action Fiche del progetto (https://ec.europa.eu/trustfundforafrica/sites/euetfa/files/t05-eutf-noa-ly-04_fin.pdf; https://ec.europa.eu/trustfundforafrica/sites/euetfa/files/t05-eutf-noa-ly-07.pdf).

72. Commissione del diritto internazionale (CDI), Commentary on Articles on Responsibility of States for Internationally Wrongful Acts, fifty-third Session, UN Doc. A/56/10 (2001), artt. 4, 5, 8.

73. Cfr. Corte internazionale di giustizia, Application of the Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide (Bosnia e Erzegovina c. Serbia e Montenegro), sent. 26 febbraio 2007, ICJ Rep, 2007, pp. 43 ss., p. 217.

74. CDI, Report of the International Law Commission on the work of its Thirtieth session, 8 May-28 July 1978, UN Doc. A/33/10, p. 102 (https://legal.un.org/ilc/documentation/english/reports/a_33_10.pdf).

75. Bosnia e Erzegovina c. Serbia e Montenegro, cit., parr. 419-420.

76. G. Puma, Complicità, op. cit., pp. 80 ss; G. Nolte e H.P. Aust, Equivocal Helpers – Complicit States, Mixed Messages and International Law, in International and Comparative Law Quarterly, vol. 58, n. 1/2009, pp. 14 ss.

77. Vds. CDI, Commentary, op. cit., p. 124; S. Kim, Non-Refoulement and Extraterritorial Jurisdiction: State Sovereignty and Migration Controls at Sea in the European Context, in Leiden Journal of International Law, n. 1/2017, pp. 49 ss.

78. Vds. N. Scavo, Libia. L’ONU chiude il centro per migranti di Tripoli a causa della guerra, in Avvenire, 30 gennaio 2020.

79. Cfr. M. Giuffré e V. Moreno-Lax, The Rise of consensual containment, op. cit.

80. Vds. CDI, Commentary, op. cit., pp. 112-113.

81. Su tutti: G. Pascale, op. cit., pp. 54 ss.; G. Puma, op. cit., pp. 83 ss.

82. Corte penale internazionale, Trial Chamber II, Procuratore c. Katanga e Ngudjolo Chui, ICC-01/04-01/07, decisione del 9 giugno 2011, par. 64.

83. Cfr. G.S. Goodwin-Gill, The Extraterritorial Processing of Claims to Asylum or Protection: The Legal Responsibilities of States and International Organisations, in UTS Law Review, vol. 9, 2007, pp. 26 ss.

84. Cfr. C. Costello e M. Foster, Non-Refoulement as Custom and Jus Cogens? Putting the Prohibition to the Test, in Netherlands Yearbook of International Law, vol. 46, 2015, pp. 273 ss.

85. CDI, Draft articles on the responsibility of international organizations, with commentaries, UN Doc. A/66/10, 2011, art. 6.

86. CDI, ivi, comm. all’art. 1, par. 7.

87. Cfr. A. Dastyari e A Hirsch, The Ring of Steel: Extraterritorial Migration Controls in Indonesia and Libya and the Complicity of Australia and Italy, in Human Rights Law Review, vol. 19, n. 3/2019, pp. 458-459.

88. Su tutti F. Salerno, L’obbligo internazionale di non-refoulement dei richiedenti asilo, in Diritti umani e diritto internazionale, n. 4/2010, p. 509.

89. A. Liguori, The Externalization of Border Controls and the Responsibility of Outsourcing States under the European Convention on Human Rights, in Rivista di diritto internazionale, n. 4/2018, p. 1230.

90. Cfr. Corte Edu, Bosphorus Hava Yollari Turizm c. Irlanda, 30 giugno 2005, par. 154.

91. Report of the Special Rapporteur on torture, 23 novembre 2018, op. cit., par. 55.

92. Quanto al consenso dell’Italia alla giurisdizione della Corte su un’eventuale controversia così definita, esso deve ritenersi già prestato sulla base della dichiarazione unilaterale di accettazione della giurisdizione obbligatoria della Corte del 25 novembre 2014 (www.icj-cij.org/en/declarations/it).

93. Cfr. K. Da Costa, The Extraterritorial Application of Selected Human Rights Treaties, Brill, Leida, 2012, pp. 251-251; Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, General Comment No. 36, UN Doc. CCPR/C/CG/36, 30 ottobre 2018, parr. 22, 63; M. Giuffré e V. Moreno-Lax, The Raise of Consensual Containment, op. cit.

94. Di recente, vds. Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, Communication in the case S.D.G. v. Italy, 2019, sempre in tema di respingimenti nel Mediterraneo centrale.